Innanzitutto l’Oriente
E’ dal 1993 che passo quasi ogni anno le mie ferie nel Sud-Est asiatico, esattamente nei Paesi che si vedono nella mappa. In totale ho vissuto in questi luoghi oltre un anno della mia vita. Abbastanza per sentirli familiari e per capire alcune cose. Intanto, ho metabolizzato, soprattutto dalla meravigliosa India, la fortuna che mi è stata data: ho vissuto da essere umano, nato libero in un paese libero e democratico, nella parte del mondo più ricca, nell’epoca più ricca e da una famiglia a cui non è mai mancato l’essenziale. Oggi, addirittura, ho tanto di superfluo, mentre in altre parti del mondo altri esseri umani non hanno di che vivere. Tra le cose superflue che mi sono state date, sicuramente l’opportunità di viaggiare è quella a cui farei più fatica a rinunciare.
India, Cina, Nepal, Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam, Malesia, Singapore, Indonesia: ho visto tutti questi Paesi, alcuni più di una volta. Io e mia moglie viaggiamo da soli, senza tour organizzati, usando, se possibile, i mezzi di trasporto locali, dormendo, se troviamo, in camere semplici ma pulite, assaggiando la cucina locale. Da bambino, mio padre, che aveva combattuto in Nord-Africa nella II Guerra mondiale, mi raccontava di un’Africa misteriosa, popolata di animali selvaggi e di tribù pittoresche. In realtà, la sua Africa era fatta di deserto e mezzi militari, spesso senza benzina, di epatiti, di acqua razionata, di bombardamenti e commilitoni rimasti uccisi. Ma quella Africa, di cui gli chiedevo ogni sera nuovi episodi, e l’Oriente misterioso dei romanzi di Sàlgari, mi si sono impressi nella mente. Così, quando vado nel ‘mio’ Oriente, ritrovo anche le immagini e i racconti dell’infanzia. E trovo, sempre assieme a Laura, la cultura tollerante del buddhismo, la grande tradizione vedica dell’India e, nonostante la miseria, un modo di sorridere alla vita che noi oramai non conosciamo.
India
Re Ashoka il Grande
Re indiano della dinastia dei Murya, visse nel 3° secolo a.C.. Diffuse il buddhismo in buona parte dell’India e in Sri Lanka, con gli insegnamenti piuttosto che con le armi. Impegnato a sedare in modo sanguinoso una rivolta nell’attuale stato indiano dell’Orissa, Ashoka descrive, nelle sue iscrizioni su roccia lasciate ai confini del suo esteso regno, le crudeli conseguenze di quella guerra, dopo la quale il sovrano rinunciò ad ulteriori conquiste e si rivolse al Buddhismo. Ashoka stabilì che da allora in poi avrebbe combattuto solo per delle conquiste spirituali volte alla diffusione della dottrina della Retta Condotta, il Dhamma. Nei suoi numerosi editti – dove Ashoka è chiamato Piyadassi, “dal gentile sguardo” – strategicamente collocati in ogni parte dell’impero, si narra come Ashoka divulgò i principi della Retta Condotta e inviò ambasciatori in tutti i Paesi conosciuti per diffonderne all’estero i precetti. Nel 1957 fu scoperto in Afghanistan perfino un editto di Ashoka in Greco e Aramaico. Negli editti si ordina di astenersi per quanto possibile dal mangiare carne e si comunica allo stesso tempo la benevolenza del sovrano verso tutte le popolazioni confinanti. Ashoka rimane un esempio di come anche il potere possa essere gestito in modo compassionevole, verso gli uomini e perfino verso gli animali.
L’imperatore Akbar
Imperatore della dinastia islamica dei Moghul, regnò in India dal 1556 al 1605. Vedeva il suo impero, che voleva avere un carattere eminentemente spirituale, come “una luce che emana da Dio, un raggio del sole che illumina il mondo”. Voleva realizzare l’ideale tradizionale del sovrano universale capace di incarnare le qualità del Dhamma e di concretizzare nella storia il “regno di giustizia”, e a questo proposito è stata messa in luce l’affinità che lo legherebbe al suo antico predecessore buddhista Ashoka.
Operando secondo questi intendimenti, cercò di conciliare prima di tutto indù e musulmani; abolì le tasse sui pellegrinaggi indù e la jizya, l’imposta sui non-musulmani, che di norma l’Islam imponeva in tutti i territori conquistati. Vietò l’uccisione della vacca, ed anzi, più in generale, fece proprie le leggi indù contro l’uccisione degli animali, spingendosi a proporre pene severe per coloro che violavano tali disposizioni, macellai in testa. Promulgò anche leggi a favore delle donne, come il divieto del sati, il suicidio obbligato della donna alla morte del marito, così presente nella tradizione indiana. Anzi, incoraggiò le vedove a risposarsi e scoraggiò il matrimonio adolescenziale della tradizione indiana. Persuase i mercanti di Delhi a organizzare speciali giorni di mercato per le donne. Nel campo della libertà religiosa, proibì la condanna a morte per apostasia, e garantì la libertà religiosa per tutti i culti e il rispetto delle particolari leggi religiose.
Raccogliendo certe suggestioni che gli provenivano dalla frequentazione di ambienti sufi, fondò la Casa del Culto, e vi raccolse esponenti delle principali correnti spirituali (induisti, sciiti, sunniti ortodossi, zoroastriani, ebrei, gesuiti, giainisti …), mostrando nei fatti un’apertura culturale del tutto sconosciuta a quei tempi… ed anche ai nostri…
Mahatma Gandhi
Chi è Gandhi (“Mahatma” – “Grande Anima”, come lo soprannominò il poeta R. Tagore) lo sanno tutti. La sua idea di non-violenza, spesso strumentalizzata o male interpretata, la facciamo spiegare da lui.
Gandhi – Cosa intendo per non-violenza
Non violenza e codardia si accompagnano male. Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La vera non-violenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio. La non-violenza non deve mai essere usata a mo’ di scudo per la codardia. Essa è un’arma per il valoroso. Non scorgo né eroismo né sacrificio nel distruggere vite o proprietà, per offesa o per difesa.
La prova del nove della non-violenza è che, in un conflitto non-violento, non vi sono strascichi di rancore e, alla fine, i nemici si tramutano in amici. Di ciò ho fatto esperienza in Sudafrica con il generale Smuts. Questi fu, dapprima, il mio più accanito avversario. Oggi è il mio amico più affettuoso.
Questo è, in sostanza, il principio della non-collaborazione non-violenta. Ne consegue che esso deve affondare le sue radici nell’amore. Il suo scopo non dev’essere quello di punire o di infliggere ferite all’avversario. Pur non collaborando con lui, dobbiamo fargli sentire che in noi egli ha un amico, e dobbiamo tentare di toccargli il cuore rendendogli servigi umanitari ogni volta che ci è possibile.
La verità (satya) implica amore, e la fermezza (agraha) genera – e quindi ne è sinonimo – la forza. Perciò ho preso a chiamare satyagraha il movimento per l’indipendenza dell’India. Vale a dire: una forza che nasce dalla verità, dall’amore, dalla non-violenza.
Ahimsa è attributo dell’anima e, quindi, deve esser praticato da chiunque, in ogni faccenda della vita. Se non viene messo in pratica in ogni settore, non ha alcun valore pratico.
L’ahimsa non è quella cosa rozza che si è voluto far apparire. Non nuocere ad alcun essere vivente fa, senza dubbio, parte dell’ahimsa. Però ne è solo un’espressione secondaria. Al principio dell’ahimsa nuoce qualsiasi pensiero malvagio, nuoce l’indebita fretta, nuocciono le menzogne, l’odio, il malaugurio, l’invidia. Questo principio viene altresì violato quando si tiene per sé ciò di cui il mondo ha bisogno.
(…)
Siccome la dottrina della spada è così radicata nella maggior parte degli uomini, siccome il successo della non-collaborazione dipende soprattutto dalla rinuncia a ogni violenza dal principio alla fine, e siccome le mie tesi al riguardo determinano la condotta di un gran numero di persone, desidero precisare questi concetti nel modo più chiaro possibile.
Credo fermamente che, laddove non ci sia da scegliere che tra codardia e violenza, si debba consigliare la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come si sarebbe dovuto comportare qualora fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto quasi in fin di vita (scappar via e lasciare che mi ammazzassero, oppure seguire il suo istinto e usar la propria forza fisica per difendermi), io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo di usare violenza.
Però credo fermamente che la non-violenza sia mille volte superiore alla violenza, che il perdono sia più virile del castigo. “Il perdono nobilita il soldato”. Ma l’astensione dal castigo equivale al perdono soltanto allorché si ha il potere di punire; non ha senso, invece, quando proviene da una creatura impotente. Un topo non perdona il gatto nel momento in cui non può far altro che lasciarsi sbranare.
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Non considero me stesso una creatura impotente. Solo, intendo usare la mia forza e la forza dell’India per uno scopo migliore.
Non mi si fraintenda. La forza non deriva dalla capacità fisica. Proviene da un’indomita volontà.
(…)
Non sono un visionario. Mi reputo un idealista pratico. La religione della non-violenza non è intesa soltanto per i rishi [saggi indù] e per i santi. È intesa anche per la gente comune. La non-violenza è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito giace in letargo, nel bruto, ed egli non conosce altra legge che quella della possanza fisica. La dignità umana richiede che si obbedisca a una legge più alta: alla forza dello spirito.
Mi sono quindi azzardato a proporre all’India l’antica legge del sacrificio-di-sé. Poiché il satyagraha e le sue diramazioni – la non-collaborazione e la resistenza civile – non sono altro che nuovi nomi per la legge della sofferenza. Quei rishi che scoprirono la legge della non-violenza nel bel mezzo della violenza erano dei geni più grandi di Newton. Ed erano guerrieri più grandi di Wellington. Benché esperti nell’uso delle armi, essi ne compresero l’inutilità e insegnarono a un mondo affranto che la sua salvezza non poteva venire dalla violenza, bensì dalla non-violenza.
Non-violenza, nella sua condizione dinamica, significa cosciente sofferenza. Non significa mite sottomissione alla volontà dei malvagi, ma comporta l’impegno di tutta l’anima a opporsi alla volontà del tiranno. Operando in nome di questa legge interiore, risulta possibile per un singolo individuo sfidare tutto il potere di un ingiusto impero per salvare il proprio onore, la propria religione, la propria anima e adoperarsi per la caduta di quell’impero o per la sua rigenerazione.
Dunque, non chiedo all’India di praticare la non-violenza perché è debole. Voglio ch’essa la pratichi essendo ben conscia della sua propria forza, del suo proprio potere. Nessun addestramento alle armi è necessario per dispiegare questa forza. Si può credere di averne bisogno perché si pensa di essere soltanto un corpo inerte. Voglio che l’India si renda conto di avere un’anima che non può perire, ma che è capace di elevarsi trionfalmente al di sopra di ogni debolezza fisica e di sfidare il mondo intero.
Qual è il significato di Rama, semplice essere umano, che, aiutato da un’orda di scimmie, si oppone alla forza insolente di Ravana dalle dieci teste, il quale si crede al sicuro perché circondato da acque impetuose, nell’isola di Sri Lanka? Non sta forse a significare la vittoria della forza spirituale sulla possanza fisica? Però, essendo un uomo pratico, non aspetterò che l’India scopra da sé l’efficacia dell’arma spirituale nella lotta politica.
L’India si ritiene impotente e si paralizza di fronte alle mitragliatrici, ai carri armati e agli aeroplani degli inglesi. E fa derivare la non-collaborazione dalla sua debolezza. Tuttavia essa servirà allo stesso scopo, cioè a liberarla dall’oppressione inglese, dal peso di questa ingiustizia, se un numero sufficiente di persone la metteranno in pratica.
Io distinguo questo movimento di non-collaborazione dal movimento indipendentista irlandese, il Sinn Fein, poiché il nostro non è conciliabile in alcun modo con la violenza. Tuttavia invito anche gli adepti della scuola della violenza a provare invece con la pacifica non-collaborazione, o resistenza passiva.
(…)
Io sono sposato all’India poiché a essa debbo tutto di me. Credo, assolutamente, che essa abbia una missione nel mondo. Non deve imitare ciecamente l’Europa. Se l’India accettasse la dottrina della spada, io verrei messo allora a dura prova. Spero di non venir trovato in difetto. La mia fede in essa, questa fede vivente trascenderà il mio stesso amore per l’India. La mia vita è votata a servire l’India mediante la religione della non-violenza che, secondo me, sta alla radice dell’induismo.
Frattanto sollecito coloro che non si fidano di me a non disturbare il pacifico andamento della lotta appena cominciata, incitando alla violenza perché convinti che io desideri la violenza. Detesto i sotterfugi, l’insincerità. Si dia modo a questa gente di metter alla prova la non-collaborazione non-violenta, e ci si accorgerà che io non ho e non ho mai avuto riserve mentali di sorta.
La forza della non-violenza è di gran lunga più meravigliosa e arcana delle forze materiali della natura, come l’elettricità. La forza generata dalla non-violenza è infinitamente maggiore della forza di tutte le armi inventate dall’ingegno umano.
Sebbene la non-collaborazione sia una delle principali armi nell’arsenale del satyagraha, non va però dimenticato che non è, dopotutto, altro che un mezzo per assicurarsi la collaborazione dell’avversario, in armonia con la verità e la giustizia. Troncare ogni rapporto con le potenze avversarie non sarà mai, quindi, consono ai fini del satyagraha, il quale mira invece a trasformare o purificare quei rapporti.
La disobbedienza civile rientra fra i diritti di qualsiasi cittadino. Nessuno può rinunciarvi senza cessare di essere uomo. Alla disobbedienza civile non tiene mai dietro l’anarchia. La disobbedienza criminale può invece condurvi. Ogni Stato reprime con la forza la violenza criminale. Perirebbe, se così non facesse. Ma reprimere la disobbedienza civile equivale a cercar di incarcerare le coscienze.
Non credo nelle scorciatoie violente al successo. Per quanto io ammiri i nobili motivi e simpatizzi con essi, sono incondizionatamente avverso ai metodi violenti, anche se al servizio della causa più giusta. L’esperienza mi ha convinto che un bene permanente non potrà mai esser frutto di non-verità e di violenza.
La non-violenza implica la volontaria sottomissione alle pene previste per la non-collaborazione con il male.